La copertina della rivista su cui l

la verità in Blondel

o la non-possedibilità del vero (2)

abstractCompletando un precedente articolo si analizza la concezione gnoseologica di Maurice Blondel, di cui viene respinta una interpretazione relativistica, pur riconoscendo in lui alcuni limiti, in particolare una eccessiva diffidenza verso il concettoCompleting a previous article, the gnoseological conception of Maurice Blondel is analyzed, and a relativistic interpretation of her is rejected, even if some of its limits are recognized, in particular an excessive diffidence towards the concept

Pubblicato in Divus Thomas, n. 29 (anno 104) [2/2001] [2001], pp. 179/202.

Riprendiamo l’argomento della verità in Blondel, iniziato in un precedente articolo.

b. L'intrinseca qualità dei concetti: loro fluidità e provvisorietà. Da quanto abbiamo finora visto non potrebbe non discendere una concezione dei concetti, nella loro stessa intrinseca qualità, che ne attenui fortemente la caratteristica di irreformabilità. Per Blondel i concetti non sono degli elementi, ma degli aspetti[1]. Ciò nel senso che per lui un concetto, in virtù della sua stessa origine, non è un rispecchiamento fedele di un dato intelligibile esistente come tale nella realtà oggettiva. Né lo potrebbe essere, date anche le premesse ontologiche del nostro autore, per il quale la realtà è da concepirsi in termini fortemente unitari, non smembrabile in una articolata molteplicità di centri ontologici autonomi. Avviene per lui, insomma, l'inverso di quanto avveniva Tommaso, che concepiva una reale molteplicità di sostanze, fornite della consistenza ontologica di un proprio actus essendi, e conseguentemente riconosceva agli ingredienti concettuali del pensiero una robusta solidità. Blondel, avendo limitato fortemente, a livello ontologico, l'autonomia del molteplice, deve pensare anche l'ambito gnoseologico più che come una molteplicità strutturata, come una ultima unità, che assume molpeplici aspetti in modo sempre subalterno e provvisorio. La molteplicità in effetti, tanto per l'essere finito quanto per il pensiero, deve essere concepita come fluida, provvisoria, radicata nell'unità e all'unità protesa [2].

Già ne Le point de départ Blondel aveva affermato che non si danno elementi strutturati, "atomici"[3]. I concetti intesi come "atomi hanno una "pretesa ontologica", quella, spiega Blondel, di rispecchiare dei grani, dei quid di realtà nitidamente circoscritta e stabilmente fissata; mentre "contrariamente a quello che siamo tentati di immaginare, le rappresentazioni dell'intendimento dai contorni ben stagliati (arrêtés), le nozioni logicamente definite, non sono la misura di ciò che conosciamo delle cose" [4]. E ciò perché la realtà stessa "non è fatta dalla somma di pretesi elementi" soggettivi o oggettivi, ma "è fatta dalla sintesi delle relazioni multiple analizzata dalla riflessione sempre discorsiva ed espressa, nella sua verità superiore, da una intuizione che ne è la causa finale e la ragion d'essere"[5].

Per esprimere questa fluidità dei concetti Blondel ricorre poi, ne La Pensée, a delle immagini. Ad esempio egli paragona i concetti ai sassi malsicuri affioranti tra una riva e l'altra di un torrente: essi ne permettono la traversata, ne sono anzi condizione necessaria, ma fermarsi su di uno di essi vorrebbe dire perdere l'equilibrio e rischiare di cadere; sui sassi bisogna passare velocemente [6]. Ancora, i concetti sono come le corazze delle cicale: le proteggono nei mesi invernali, permettendo ai loro fragili organi interni di svilupparsi, ma poi, quando viene l'estate, vengono spezzate e abbandonate: utili, ma superabili[7]. Con i concetti accade quello che è accaduto per l'astronomia: l'astronomia antica credeva nella fissità delle stelle e delle costellazioni, quasi fossero la visibilità dell'eterno, dotate di una assolutezza sacrale; analogamente la gnoseologia classica (incluso il tomismo) si è illusa sulla fissità e immutabilità dei concetti, ben saldi nei loro nitidi contorni, come se si potessero cogliere le essenze immutabili della cose, parlando di essentiarum cognitio, indivisibilium apprehensio, come se si potesse comprendere "attraverso un atto misterioso dello spirito l'essenza di ogni essere, o almeno di ogni genere"[8]. Ma come la moderna scienza ha scoperto quanta parte avesse nella realtà dell'universo il divenire, al punto che nulla resta esattamente identico a sé, così occorre che la gnoseologia si renda conto, ammaestrata dall'esperienza della dilatabilità del sapere (Blondel pensa ad esempio alla fisica contemporanea, o alle geometrie non-euclidee), di quanto sia fluido, dilatabile, riformabile il mondo dei concetti. Che "i nostri concetti offrano una coerenza interna che li rende definiti e stabili, al punto da sfuggire al divenire e costituire un ordine fisso che sembra renderli superiori al movimento e alla durata", è per Blondel tesi inaccettabile[9]: il nostro pensiero ha una plasticità che non lo lascia cristallizzare in elementi definitivi.

Dunque gli ingredienti minimi del pensiero discorsivo vanno visti come qualcosa di mutevole, qualcosa di elasticamente e indefinitamente adattabile alla necessità di sempre meglio rispondere alla realtà. E la realtà non si lascia sezionare e oggettivare una volta per tutte, come se fosse qualcosa di inerte, come un meccanismo che può essere smontato e ricostruito, e che perdura finché non si interviene dall'esterno. La realtà infatti è strutturalmente unitaria e in qualche modo viva, organica. Adattarvisi perciò richiede una vivente dilatabilità. Il che peraltro non comporta che i concetti siano falsanti, puri schemi praticamente utili ma non rivelativi, come vedremo ora, parlando della loro portata conoscitiva.


c. la portata conoscitiva dei concetti. Parlando della "portata conoscitiva" parliamo essenzialmente di quello che nel tomismo si chiama intenzionalità, e in particolare analizzeremo in primo luogo se e in secondo luogo come in Blondel i concetti, sia pur artificialmente prodotti e sprovvisti di una consistenza stabile, rappresentino fedelmente qualcosa della realtà, abbiano la capacità di intenzionare l'in sé..

Ne La Pensée egli si sforza di conciliare un certo valore rivelativo del pensiero noetico, con la sottolineatura della sua non-autosufficienza. Il segno concettuale, dice ad esempio Blondel, è solo "apparentemente pura rappresentazione di una realtà, a cui resta inferiore"[10]. In effetti il pensiero concettuale aggiunge qualcosa di suo agli oggetti conosciuti: il pensiero che pensa gli oggetti "tende a completarli, a riunire i loro aspetti o i loro stati successivi, a fissare, in una unità che domina l'estensione o la durata, la loro verità più essenziale, a immaterializzarli in qualche modo e ad accrescere questo carattere di intelligibilità reale che era già in loro in forma abbozzata"[11]. Ne segue che il pensiero non è una rappresentazione passiva, ma accresce l'intelligibilità degli oggetti pensati, li arricchisce con qualcosa di nuovo. Sbaglia perciò il "realismo passivo" a concepire l'intellezione come l'autotrasparenza dell'oggetto al pensiero [12]. Gli oggetti non possono illuminarci che grazie al nostro apporto, non è l'oggettività che illumina in modo decisivo: il "mondo degli oggetti" non può fornire "né il principio né il termine della conoscenza"[13]. In qualche modo dunque si potrebbe dire che alla debolezza dell'oggettivo fa riscontro una forza del pensiero [14]. Sembra dunque affermarsi in Blondel, come dicevamo, la forza dell'intelligenza sull'intelligibile, del pensiero sull'oggettività. Ma questa forza non è anzitutto forza del pensiero umano, bensì della Soggettività divina[15]. D'altronde la debolezza dell'intelligibilità oggettiva è anche, per ciò stesso, debolezza del pensiero concettuale, che da tale intelligibilità sarebbe stato nutrito, e reso capace di autonomia rispetto alle altre forme di conoscenza e alla dinamica integrale della vita, imperniata sull'azione.

Così Blondel, esaminando, al termine del secondo volume de La Pensée, la tesi aristotelica della conoscenza come assimilazione del soggetto all'oggetto, consumantesi in una identità intenzionale tra i due termini, annota che se da un lato si può ammettere che, al culmine della conoscenza del vero, pensiero e pensato facciano in qualche modo uno, poiché il pensiero fit quodammodo omnia 16, è d'altro lato ancora più vero che il soggetto pensante recepisce il pensato a suo modo, non come la cera riceve lo stampino[17]. Non si può insomma pensare ad una sottomissione dello spirito alla materia, o a ciò che ad esso è comunque inferiore (come lo sarebbero le forme sostanziali degli enti infraumani), quindi non si può pensare ad una passiva assimilazione della soggettività spirituale a ciò che le è inferiore. La conoscenza allora non sarà assimilazione intenzionale del soggetto umano all'oggettività finita, l'intellezione non sarà passiva recezione dell'intelligibilità (oggettivo-finita). L'intelligibile che si forma in noi non è tale "par identification et réduplication"[18]. E il segno (concetto) non ha in Blondel il potere, attribuitogli dal tomismo, di rendere presente l'oggetto, intenzionalmente uno con esso: nel finito non si dà compiuta identità tra intelligente e intelligibile. Blondel è esplicito nel negare che nel segno sia adeguatamente intenzionato l'oggetto (anche intendendo per oggetto un aspetto parziale della realtà)[19].

Se solo in un certo senso quindi si può parlare di intenzionalità dei concetti, a maggior ragione si potrà escludere che essi ci facciano attingere, da soli, la comprensione della realtà presentata. L'opera di Blondel è intessuta di moniti contro lo spirito di sistema, contro la pretesa (“ideolatrica”) di possedere conoscitivamente la realtà nei nostri concetti: è illusorio credere che le idee ci diano una comprensione delle essenze, che costituiscono l'intelaiatura intelligibile del reale. Piuttosto bisogna riconoscere l'insufficienza del concetto, anzi l'insufficienza della stessa filosofia: il pensiero (filosofico) è non solo, di fatto, "incompiuto" (inachevée), ma anche di diritto, metafisicamente e strutturalmente, “incompibile” (inachevable) [20].

"Peccheremmo gravemente attaccandoci al solo aspetto razionale, come se fosse non solo isolabile, ma completo e sufficiente per rendere conto di una vita intellettuale semplicemente e passivamente informata da esso (informée par lui)"[21].


Bisognerà allora rassegnarsi, secondo Blondel, a una conoscenza essenzialmente monca, ad una strutturale mancanza di presa sulla realtà in sé? No: quello che Blondel mette in luce è l'incompletezza delle due modalità conoscitive prese nella loro separatezza, ma in una dinamica reciproca interrelazione, e in virtù del coinvolgimento globale del soggetto umano, è possibile un reale attingimento della verità dell'essere.


la sintesi asintotica

Abbiamo visto finora come l'oggetto adeguato del pensiero ne debordi i limiti, e come perciò il pensiero debba per così dire biforcarsi per cercare di abbracciarlo; abbiamo però anche visto come tale divaricazione del pensiero subisca normalmente (la storia della filosofia lo documenta ad ogni passo) un misconoscimento, il tentativo di incentrarsi su una sola delle due modalità, tenendo "un solo capo della catena". Per Blondel invece la verità è raggiunta solo in una convergenza asintotica che integri entrambe le polarità, noetica e pneumatica, astrattivo-concettuale e intuitivo-vitale, in cui si biforca lo sforzo del soggetto pensante. A questo riguardo va registrata una certa evoluzione dagli articoli del 1906 a La Pensée. Nei primi la proposta di Blondel era essenzialmente imperniata sui due poli, connaissance directe e connaissance inverse, prassi e speculazione, vita e mens, e la verità era vista come raggiungibile in una dinamica circolarità tra due fattori, in reciproco, inesausto rimando. Nell'opera della maturità a tali due fattori se ne aggiunge un terzo: noetico e pneumatico non rimandano l'uno verso l'altro se non per rimandare ulteriormente al un terzo termine, sovrastante entrambi.

1. Ripercorriamo brevemente quanto Blondel sosteneva ne Le point de départ. La verità, vi affermava il filosofo di Aix, è certo adeaquatio, "equazione" come traduce il filosofo francese, raggiunta identità; ma i due poli che vi si "eguagliano", raggiungendo una unità, che superi il dislivello della precedente differenza, non sono, come nella definizione tomistica, il pensiero e la realtà (l'intellectus e la res),: sono invece rappresentati da una serie di coppie che si rapportano in dialettica inesauribile, ossia la mente e la vita, la speculazione e la prassi, l'analisi (propria del concetto, della riflessione) e la sintesi (propria dell'intuizione, della "prospection"). Una tale "equazione" non è mai definitiva né totale: si tratta di un continuo tendere verso una pienezza a cui ci si può asintoticamente avvicinare, ma che non si può afferrare e dominare come un possesso statico. Essa parte dalla constatazione della non-autosufficienza delle due polarità che caratterizzano l'esistenza umana: da un lato la speculazione ha bisogno della prassi, della vita, dall'altro la vita della speculazione. Solo così, come abbiamo poco sopra visto, si rispetta l'effettivo e concreto modo di conoscere, che è sempre "simultanément par réflexion fragmentaire et par prospection totale". La pretesa di dividere i due tipi di conoscenza produce viceversa solo qualcosa di insufficiente e di monco: la sola astrazione speculativa infatti non ci dà la "réalité réelle", e a sua volta la sola intuizione pratica non ci dà "la verité vraie" che è "vue distincte, expressive, utilisable de ce qui est" [22]. In effetti l'originaria percezione che abbiamo dell'esistenza è qualcosa di totale, di unitario: non scissa unità dell'intera conoscenza, concettuale e intuitivo-vitale, e dell'intera realtà, al contempo strutturata e fluida. Così i due poli che devono essere “in qualche modo” unificati non sono l’uno di fronte all’altro, estrinseci e giustapposti [23], ma sono due fattori in dinamica circuminsessione, il pensiero e l’azione (la vita): dove il pensiero non è statico rispecchiamento di atomi logici compiutamente definiti, e l’azione non è oscuro magma in caotica dispersione[24]. Tale non-eterogeneità rende possibile un continuo rinvio reciproco, una costante tensione all'adaequatio tra l’implicito (ossia l’azione, l’istanza vitale-oggettiva) e l’esplicito (ossia il pensiero). é ciò che Blondel enuncia con la sua definizione:

"All'astratta e chimerica adaequatio speculativa rei et intellectus si sostituisce la ricerca metodica di diritto, l'adaequatio realis mentis et vitae."[25]

Piuttosto che “mirare anzitutto a conoscere, e a conoscere degli oggetti”, la filosofia dovrà perciò procedere dal bisogno di colmare quella sproporzione che ci costituisce tra mens e vita, tra pensiero e azione, tra esplicito e implicito[26]. Dinamismo di reciproco rinvio, sproporzione mai colmabile, tensione implacabile verso una unità mai pienamente raggiungibile: con questi tratti Blondel definisce la verità ne Le point de départ. Né il fatto di concepire la verità come equilibrio sempre da perfezionare, in una tensione continua, costituisce per lui una obiezione: “non si tratta di costruire un sistema chiuso o una teoria che basti a sé stessa, di pretendere di accaparrare l’infinito in una formula fissa (fixée)” [27]. Ci deve invece bastare "fornire alla pratica l'orientazione, la luce, la verifica utili al progresso sempre solidale del pensiero e della vita" [28]. La speculazione infatti non è parallela alla vita, non è un suo doppione (un doublet), non le è esterna, ma si attua in una inesauribile circolarità con essa, per cui "la verità, quella vivificante e reale, non è un sistema di cui ci si possa impadronire (emparer) solo ragionando (rien qu'en raisonnant); non si entra nella conoscenza del reale che unendo il metodo ascetico allo sforzo speculativo"29:

"La pratica -spiega ancora Blondel- apporta alla riflessione un insegnamento che non si ottiene per nessun'altra via" (PD2, 239). Perciò "la filosofia non comincia davvero se non quando, non paga di riferirsi semplicemente all’idea dell’azione come a suo oggetto proprio, si subordina all’azione effettiva stessa, divenendo praticante”30.

La verità è dunque questione di azione non meno che di contemplazione: si ha verità solo in una verifica.


2. Quello che ne Le point de départ del 1906 era fondamentalmente un dittico, diventa, come accennavamo, un trittico ne la Pensée. Qui la "diplopia" ha significato e può trovare soluzione solo in un rimando all'infinito:

il pensiero, diviso nelle due modalità, non può mettere a fuoco l'immagine unitaria che grazie a "une clarté": occorre "che portiamo il nostro sguardo all'infinito"[31].

Noetico e pneumatico sono simmetrici e reciprocamente richiamantesi, sono funzione l'uno dell'altro, ma al contempo sono "incommensurabili e irriducibili", non possono pienamente integrarsi nel finito, ma si rincorrono come due parallele, convergenti all'infinito [32]. Da un lato i due tipi di pensiero non si lasciano richiudere nel proprio circoscritto perimetro, quasi potessero stabilizzarsi in una separazione, non possono che aspirare ad una unità armonica, alla ricostruzione della totalità; ma questa unità, d'altro lato, si rivela impossibile se si resta nell'ambito del finito. Tra questi due poli si apre in effetti un vuoto, che solo un tertium può colmare, e scocca così la scintilla dell'aspirazione a qualcosa di superiore, si sviluppa un dinamismo senza cui la coscienza ristagnerebbe come uno stagno marcio [33]. è come una ferita mortale nel pensiero, e chi non vuole rassegnarsi ad essa non può che andare avanti, fino in fondo, senza tregua, in cerca della soluzione totale.

Non bisogna credere che questa indigenza sia tale da paralizzare il pensiero, distruggendo la possibilità di una reale, benché imperfetta, partecipazione alla verità. Istituendo una analogia tra pensiero e visione oculare, Blondel osserva che nella stessa vista si ha un "punto cieco", uno "scotoma centrale", una lacuna reale nella percezione visiva, che tuttavia non solo non impedisce, ma rende possibile la continuità della sensazione visiva. Così è per il pensiero: il "punto cieco" che inside nel cuore di esso, il crepaccio che si apre tra i due tipi di conoscenza intellettiva, non ci impedisce di conoscere in modo sicuro, anche se rende il nostro pensare qualcosa di sempre tendente all'ulteriore, e di mai sistematizzabile definitivamente[34].

Blondel ha affrontato l'obiezione che la sua idea di una "incompletezza essenziale" della conoscenza intellettiva naturale, con questo necessario rimando ad un terzo termine, oltre la natura, possa seriamente compromettere una legittima autonomia e solidità del livello finito, sia in ambito gnoseologico35, sia in ambito ontologico[36]. A suo dire la sua tesi si limita a una negazione del carattere assoluto del finito[37]. In particolare Blondel insisteva sulla necessità di evitare una assolutizzazione della conoscenza concettuale che si traduca nella convinzione della possibilità di definitiva stabilizzazione dei sistemi filosofici, che invece devono sempre essere rapportati ad un termine di paragone mai possedibile, e da esso misurati. Se in effetti vi può essere una stabilità di "orientamento", resta anche, come ineliminabile retaggio del pensiero umano nel suo cammino storico, una "plasticità", che rende qualsiasi sistema passibile di cambiamento[38]. Ciò tuttavia deve essere inteso, secondo Blondel, in un senso non precipuamente negativo, ma positivo: egli protesta costantemente di non voler distruggere che per costruire, facendo spazio a una certezza solida e positiva[39].

Qualche valutazione

Vorremmo ora proporre alcune valutazioni sul tema fin qui affrontato. Abbiamo cercato più volte di mostrare come, nelle sue tesi portanti, il pensiero blondeliano sia in armonia con la tradizione agostiniana. In ogni caso, dal punto di vista teoretico, che è quello che essenzialmente ci interessa, riteniamo decisivo determinare quale sia l'esperienza che Blondel intende giustificare, fondandola teoreticamente. In secondo luogo formuleremo una prima proposta di valutazione sulla adeguatezza della soluzione blondeliana.

I. il problema. Abbiamo sufficienti elementi per affermare che l'esperienza a cui Blondel preme riconoscere piena cittadinanza teoretica è quella della non autosufficienza della concreta e integrale consapevolezza umana, e in particolare della sua dimensione concettuale. Blondel in altri termini relativizza il concetto, perché l'esperienza della conoscenza umana è esperienza di indigenza, di relatività [40]. Il segno più clamoroso che consente a Blondel di parlare di tale relatività è l'instabilità del conoscere umano, il suo non poter mai sostare definitivamente in una formula fissa. è soprattutto contro la pretesa (ideolatrica) del pensiero concettuale[41] di potersi sistematizzare, bloccandosi in asserti chiusi, autosufficienti e definitivi, che Blondel polemizza. Il pensiero invece deve umilmente fare i conti con la vita, accettando di evolversi in rapporto ad essa, e ai mutati contorni che essa assume. La relatività che Blondel attribuisce alla conoscenza è da intendersi come mutevolezza e instabilità, in opposizione all’assolutizzazione del concetto come pretesa di racchiudere la verità una volte per tutte.

Ma come va esattamente intesa la instabilità che Blondel cerca di fondare? è essenziale determinare se si tratti della instabilità della conoscenza del singolo soggetto umano, ovvero di quella della collettività umana nel suo cammino storico[42]. Se fosse vera la seconda alternativa difficilmente si potrebbe negare al pensiero blondeliano una flessione modernistica[43]. Noi riteniamo tuttavia che, da una attenta e serena lettura della pagina blondeliana emerga piuttosto la validità della prima alternativa: l'esperienza, di cui Blondel vuole rendere ragione, è quella dell'individuo, o meglio della persona, in cerca del senso ultimo della sua vita. La difficoltà che l'uomo contemporaneo avverte nei confronti della verità, di un possesso sicuro e stabile della verità[44], non viene considerata da Blondel come obiezione, ma anzi come valido punto di partenza di un itinerario ultimamente orientato alla fede. L’instabilità nel possesso del vero richiede all'uomo di accollarsi la responsabilità di un cammino di progressiva assimilazione al vero. In altri termini l’instabilità può diventare cammino. E ciò che a Blondel preme è indicare un cammino che possa essere percorso dalla persona Non è il genere umano, né la comunità cristiana, ad essere chiamato ad un progresso nell’intelligenza della verità, mediante l’azione; è la singola persona che deve condurre una indemandabile verifica, che si snoda temporalmente in un inesauribile rimando tra pensiero e azione45.

Da questo primo ordine di considerazioni, che potremmo definire della debolezza dell'intelletto speculativo, ovvero della sua non autosufficienza al coglimento dell'intera verità, scaturisce il secondo polo teoretico, l'importanza decisiva della verifica pratica, della volontà: “è sposandosi con l'azione che il pensiero genera la vera conoscenza”, “la conoscenza non va nel senso della verità che divenendo un appello all'azione e raccogliendo la risposta dell'azione”[46]. Solo l'azione, incoativamente guidata da una originaria, benché imperfetta e indistinta conoscenza, può arricchire la conoscenza di certezza esistenziale. Diversamente, la conoscenza resterebbe esangue, astratta, priva di peso esistenziale e incapace di certezza. è questo il concetto, essenziale in Blondel, di verifica: l'azione ha una vera e propria valenza gnoseologica, non ha rilevanza meramente pratico-operativa. Solo facendo il vero che si conosce, lo si conosce con certezza incontestabile (poiché si constata, anche affettivamente, tramite quegli indicatori emozionali che sono parte integrante della nostra umanità, ossia la pace e la letizia, che esso produce in noi una realizzazione integrale). Solo tramite l’azione, ossia tramite una verifica incessante del giudizio, che viene man mano maturando, la persona può percorrere efficacemente il cammino di assimilazione del vero, di cui abbiamo poco sopra parlato.

II. la soluzione. Se il problema posto da Blondel è di indiscutibile pertinenza resta la questione di valutare la adeguatezza della sua soluzione. A tale proposito vorremmo proporre alcuni spunti di riflessione. Ci sembra anzitutto si possa riconoscere come non vi sia nel suo pensiero la negazione di un livello naturale di verità. Egli infatti non nega qualsiasi valore rivelativo al concetto: abbiamo già visto sopra come nella sua critica a Bergson egli affermi la naturalità del concetto, la sua non artificiosità; più oltre abbiamo anche ricordato come egli sostenga la insostituibilità del concetto, apportatore di un tipo di conoscenza non attingibile per altra via. D’altra parte non è negabile che Blondel non riconosca al concetto quei caratteri di stabilità e di irreformabilità, che per il tomismo sono irrinunciabili.

Il punto fondamentale al riguardo ci pare la distinzione, che Blondel non approfondisce quanto meriterebbe, tra concetti come "aspetti", gli unici di cui Blondel ammetta il valore, e concetti come "elementi" (ovvero "atomi" logici, come dati strutturati), che a suo parere altro non sarebbero che illusione e fittizia pretesa. Come intende in effetti Blondel "aspetti" ed "elementi"? Certamente gli importa dimostrare la non-autosufficienza della pura speculazione: egli è esplicito nel dire che solo concependo i concetti come aspetti si potrà costringere il pensiero speculativo a sposarsi con l'azione [47]; se ne evince che l'illusione che la verità sia attingibile per via puramente speculativa si fonda sulla convinzione del carattere "atomico" dei concetti. I concetti intesi come "atomi", possiamo ancora aggiungere, hanno una "pretesa ontologica" [48]: quale? Quella, ci spiega Blondel, di rispecchiare, se così possiamo dire, dei grani, dei quid di realtà intelligibile nettamente circoscritta e stabilmente fissata, mentre "contrariamente a quello che siamo tentati di immaginare, le rappresentazioni dell'intendimento dai contorni ben stagliati (arrêtés), le nozioni logicamente definite, non sono la misura di ciò che conosciamo delle cose" [49]. E ciò perché la realtà stessa "non è fatta dalla somma di pretesi elementi" soggettivi o oggettivi, ma "è fatta dalla sintesi delle relazioni multiple analizzata dalla riflessione sempre discorsiva ed espressa, nella sua verità superiore, da una intuizione che ne è la causa finale e la ragion d'essere"[50]. Perché Blondel ritiene necessario pensare che i concetti non siano elementi ma aspetti? La risposta, come già dovrebbe essere chiaro, è che altrimenti non risulterebbe fondata l’esperienza della instabilità della conoscenza umana. Ma per poter pensare i concetti come aspetti, cioè come qualcosa di non intrinsecamente autosufficiente, Blondel è portato a negare che la stessa realtà oggettiva sia qualcosa di articolato in una molteplicità di centri ontologici almeno relativamente stabili e realmente distinti dal contesto totale: non ci sono elementi del pensiero perché non ci sono elementi della realtà; e come il pensiero è qualcosa di fluido e di unitario, così lo è la realtà stessa: "sintesi" non di sostanze, ma "di relazioni multiple".

Come valutare tale soluzione? Si sembra importante distinguere. Da un lato l'intentio profundior del Blondel ci appare condivisibile, e l'esperienza cui egli si appella è incontestabilmente constatabile da chiunque: la verità (sapienziale) non ci si dà come qualcosa di possedibile. Ci pare però lecito dissentire sulla via scelta da Blondel per fondare tale esperienza. Egli ritiene infatti che l'esperienza della non-autosufficienza del puro intelletto speculativo nei confronti della verità totale comporti come unica spiegazione possibile la relativizzazione degli ingredienti dell’intelletto, e con ciò la relativizzazione dello stesso intelletto. Dato insomma che l'esperienza dell'intelletto è esperienza di debolezza, ne dovrebbe seguire che debole sia lo stesso intelletto e i suoi ingredienti essenziali, i concetti. Debole essendo l’operazione, l’atto secondo, debole dovrà essere il soggetto operante, l’atto primo. La debolezza del dinamismo trascina con sé una debolezza di quella che potremmo chiamare struttura. è interessante notare che il tomismo "classico” argomenti in modo esattamente simmetrico: la forza della struttura implica la forza del dinamismo operativo; dato cioè che l’intelletto non può (strutturalmente) fallire il suo oggetto, il suo dinamismo concreto infallibilmente lo attinge. In realtà a noi pare che sia possibile operare una distinzione tra struttura conoscente e dinamismo conoscitivo concreto.

Perciò crediamo si possa seguire Blondel sul primo punto, relativo al dinamismo conoscitivo: l'esperienza dell'intelletto è un'esperienza di debolezza, di progressività mai compiuta. Non ci sentiamo di seguirlo in ciò che egli ritiene di poterne dedurre. A nostro parere bisogna in effetti riconoscere una certa stabilità della struttura conoscente, una permanenza dei suoi ingredienti strutturali. Ciò non significa negare che il dinamismo operativo concreto veda questi stessi ingredienti strutturali in una molteplicità di configurazioni, che ne possono variare il senso complessivo[51].

In sintesi: non a torto il filosofo di Aix denuncia l’insufficienza della spiegazione tomistica del vero, in quanto non rende adeguatamente ragione della mutabilità della nostra concreta conoscenza del vero, della sua impossedibilità; non sa cioè spiegare il dinamismo operativo concreto della conoscenza del vero, contrassegnato da una esperienza di debolezza; debolezza che implica l’impossibilità di arrestarsi agli ingredienti analitici, e l’indigenza di un riferimento all’intero, alla totalità, con il coinvolgimento della volontà. D’altro lato ci sembra sproporzionata alla finalità che Blondel stesso dice di proporsi (rendere ragione del fenomeno concreto della verità) la negazione che la stessa struttura dell’intelletto, articolata nei suoi determinati elementi intelligibili, abbia un suo livello di consistenza e di stabilità. Una tale negazione rende problematica la dimensione di disponibilità del vero, che pure ne costituisce parte integrante[52].


Francesco Bertoldi


note


[1]Le rappresentazioni determinate "sono degli aspetti, non degli atomi o degli elementi costitutivi della realtà" (PD2, 244).

[2]"Les êtres atomisés ne sont pas plus absolus, clos et unifiés que ne l'est l'univers en son devenir" (Pen1, 128). Non che gli esseri non abbiano una "relative indépendance" e una "authentique subsistance", ma ancor più vi è una "indigence mutuelle" (Pen1, 129). Ancora, "prétendre que les êtres sont posés chacun en leur fixité et que le monde est comme une collection de choses (...), comme des essences fixes ou même comme une évolution multiforme, c'est donc méconnaÎtre la solidarité qui forme un drame historique. C'est se condammner à ignorer la genèse spirituelle qui (...) travaille la nature entière pour conduire tout le devenir à se rattacher à la fin suprême; seule cette fine pourra en effet conférer aux ébauches de réalité une consistance et une perfection répondant au voeu implicite de la nature" (Pen1, 23). Ricordiamo anche le seguenti espressioni: "Il n'y a point de connaissance absolue du relatif si ce n'est du point de vue du tout" (PD2, 231).

[3] La filosofia perciò non si proporrà più di "scoprire al termine delle sue regressioni degli elementi definiti una volta per tutte, dei concetti dai contorni ben netti come lo sono in apparenza quelli di un cristallo, delle formule che permettono, con l'aiuto di questi materiali, di ricostruire idealmente la realtà considerata come un sistema chiuso" (PD2, 232). "Ni en nous, ni hors de nous si ce n'est par une fiction pratiquement indispensable, mai philosophiquement illégitime, on n'aboutit par la voie spéculative à des objets fixes, distincts et irréductibles, à des atomes de conscience ou de substance" (PD2, 232).

[4]PD2, 245.

[5]PD2, 246.

[6]Gli oggetti del pensiero, e dunque i concetti, sono come i sassi (les pierres branlantes) di un guado (gué) su cui il piede non può posarsi, ma deve in fretta passare, magari facendoli capovolgere pur di non cadere lui ("au risque de les faire chavirer sans pour cela tomber lui-même", Pen1, 128). Quasi le stesse parole Blondelusa nell'articolo su Agostino, "Le quinzième centenaire de la mort de Saint Augustin (28 août 430)", RMM 1930, p. 443.

[7]Pen2, 320/1. Non è chiaro se l'estate, cui Blondel allude, sia l'eternità, la piena visione del Vero, oppure vada intesa come qualcosa di storico. Per non banalizzare la sua tesi ci pare si debba considerare esatta la seconda alternativa.

[8]"Par un acte mystérieux de l'esprit l'essence de chaque être, ou tout au moins de chaque genre", Pen2, 24. Le idee, avverte Blondel, non sono "entità concrete" (Pen2, 319), e non esiste quella "universalità astratta" che si chiama "generalità": è artificioso sostituire "des particularités génériques à l'universel concret, qu'elle semble préciser et dominer grâce à son effort vers un ordre trascendant"(Pen2, 319).

[9]Pen2, 26. Il che non significa, precisa Blondel, che essi siano destituiti di valore: i concetti non possono "essere ricondotti a semplici etichette comode o a delle pure rappresentazioni soggettive" (Pen2, 31).

[10] "en apparence purement représentatif d'une réalité à laquelle il reste inférieur, et (..) servant d'outillage ébauché pour notre prise de connaissance et de possession du monde", Pen1, 103. Da notare come l'avverbio purement attenui la valenza antirealistica di questa tesi, che pertanto non nega qualsiasi rappresentatività, ma solo una rappresentatività come totale identità tra conoscente e conosciuto.

[11] "Mais d'autre part, la pensée qui pense ces objets tend à les completer, à réunir leurs aspects ou leurs états successifs, à fixer, dans une unité qui domine l'étendue ou la durée, leur verité plus essentielle, à les immaterialiser en quelque façon et à accroître ce caractère d'intelligibilité réelle qui était déjà en eux sous une forme ébauchée" (Pen1, 134/5).

[12] "La pensée qui pense les objets n'est pas un simple doublet, une représentation passive; elle les actualise en se promouvant elle-même; elle a donc l'impression profonde d'être quelque chose de nouveau, d'ultérieur, de plus intelligible; et cette impression, dont abuse l'idéalisme, doit nous mettre en garde contre les abus symétriques d'un réalisme passif"(Pen1, 135).

[13] "Jamais l'objet pensé, même s'il est pensant lui-même, n'est stabilisé ni stabilisant pour la pensée. C'est pour cela que le monde des objets ne saurait fournir le principe, le ressort, le terme de la connaissance et de la conscience", Pen1, 136/7.

[14] Sull'oggettività debole: "tutto ciò che sembra oggettivamente dato e raggiunto (atteint) resta incompleto, in divenire, per così dire fissuré(spaccato, crepato) e incompleto" (Pen1, 137); quanto alla forza del pensiero, Blondel parla del "rôle originale du sujet pensant" (Pen1, 137), di una pienezza soggettiva, che riempie il vuoto lasciato dall'oggettivo.

[15] Perché gli oggetti possano essere tali per il pensiero occorre che vi sia in loro qualcosa di analogo al pensiero stesso, ossia "une synthèse, un vincolum, une activité immanente comme un principe d'unité intérieure et, selon l'expression de Leibniz, analogue à la vie d'un sujet."(Pen1, 138): non si dà oggettività chiusa in sé, ma sempre essa suppone non solo il nostro pensiero, ma una "soggettività già inclusa in questi oggetti" (ibidem).

In realtà "la source de la lumière n'est ni en nous ni dans les choses", Pen1, 229. E, se non vi è intelligenza senza intelligibile, né intelligibile seza senza intelligenza, l'unica uscita dall'impasse è ammettere una Soggettività infinita, che nella Sua ineffabile unità ricomprenda entrambi questi poli (Pen2, 286 sgg.).

[16] "Il est vrai de dire que notre entendement devient en quelque façon toutes choses, qu'à la limite de sa perfection le pensé et la pensée s'identifient sans se confondre" (Pen1, 225).

[17]Pen1, 225/6. L'aporeticità del pensiero aristotelico in proposito emerge soprattutto nel concetto di dato. Aristotele si illude di partire da dati certi immediati, credendoli "originali, spontanei, ovvi, immutabili", mentre lo sviluppo della psicologia mostra che così non è. Senza contare che la stessa scienza della natura ha molto arricchito il pensiero (ad esempio si pensi alla relatività einsteniana, e alla fisica quantistica).

[18] Pen2, 281.

[19] "vi è sempre tra l'oggetto e il simbolo un legame artificiale o piuttosto volontario (...); di tal sorta che il pensiero ha costantemente un duplice oggetto: da una parte la realtà profonda a cui esso tende e in cui cerca di attingere come in una riserva inesauribile, d'altra parte la nozione definita, di cui il segno è veicolo e che rischiamo di prendere per la realtà stessa" ("Il y a toujours entre l'objet et le symbole un lien artificiel ou plutôt volontaire ou intentionnel; de telle sorte que la pensée a constamment un double objet -d'une part la réalité profonde à laquelle elle vise et où elle cherche à puiser comme dans un réservoir inexhaustible- d'autre part la notion définie dont le signe est le véhicule et que nous risquons de prendre pour la réalité même") (Pen1, 101).

[20] Pen2, 167. Il termine è difficilmente traducibile, il suo senso comunque è non passibile di compimento, mai perfettamente terminabile. La filosofia, ammonisce Blondel, è appunto ricerca della sapienza, e non "sagesse parfaite" (Pen2, 335). Non del tutto a torto, ritiene Blondel, un suo collega paragona i concetti ai coccodrilli, adorati dai primitivi; c'è una parte di verità in tale boutade, che svela quanto fallacemente si riponga nei concetti la fiducia di poter dominare il mondo oggettivo. In effetti la falla del nostro pensiero non consiste in tante piccole fessure, ma in un grande crepaccio (lézarde) che spacca l'edificio dalle fondamenta alla sommità (Pen2, 331). Credere di potersi fondare come su una roccia su delle idee "la cui realtà, che non ci sogniamo di contestare, è tuttavia essenzialmente indigente (besogneuse) è dunque già un peccato capitale contro lo spirito". "Chercher un appui, non seulement pour le monde et pour soi, mais pour l'ordre trascendant lui-même, en des choses, en des idées, dont la réalité, très incontestée, est cependant essentiellement besogneuse, c'est donc déjà une faute capitale contre l'esprit. Toutes les doctrines qui s'attachent uniquement à l'aspect noétique, si réel et fondé qu'il soit, constituent donc, sous prétexte de vérité objective, une pensée mutilée, et créent pour nous un péril prochain d'infidélité à la loi de notre développement spirituel"(Pen2, 334).

[21] Pen2, 335.

[22] Entrambe le citazioni in PD2, 225. Per questo, in particolare, la filosofia speculativa dovrà porsi da un punto di vista unitario, avendo come compito "d'élucider la synthèse intégrale de la prospection"; viceversa la filosofia pratica dovrà porsi dal punto di vista analitico (della riflessione), avendo come compito quello di "réintégrer en elle toutes les conquêtes fragmentaires de la réflexion", rispettivamente PD2, 226 e 227.

[23]Se infatti i due poli che devono essere adaequati, livellati, resi in qualche modo uno, fossero un pensiero puramente concettuale-discorsivo e una realtà affatto eterogenea al logos, si dovrebbe o, per così dire, cristallizzare il mobile (cioè il reale), come in qualche modo tende a fare il razionalismo, o mobilizzare il fisso (cioè il pensiero, che diverrebbe così qualcosa di anarchico), come in qualche modo tende a fare l'intuizionismo. Bisogna allora evitare di ritenere pensiero ed essere due sfere eterogenee, ambito l’una di una cristallizzata definitività, l’altra di una inafferrabile fluidità. L’azione in particolare non va intesa come "un'entità, vista da fuori, nella sua opposizione col pensiero di cui essa diverrebbe un oggetto particolare ou un termine esteriore" (PD2, 235).

[24] Il reale a cui il pensiero è chiamato ad “adeguarsi” non è, per così dire, il reale-in-sé, ma il reale-per-me, quel reale cioè con cui ho a che fare nell’azione, anzi quel reale che è la mia azione. Infatti Blondel definisce l'azione come ciò che deve essere conosciuto, la pietra di paragone del pensiero, la “cosa”: "l'x da determinare non è dunque un oggetto ipotetico, una finzione ideale; è la realtà immanente che racchiude (enveloppe) l'origine e il termine di cui il nostro pensiero attuale è l'effetto e il mezzo. E per designare questa mescolanza di virtualità oscure, di tendenze coscienti, di anticipazioni implicite, il termine azione sembra ben scelto (bien choisi); poiché esso comprende ad un tempo la potenzialità latente, la realizzazione conosciuta, il presentimento confuso di tutto ciò che, in noi, produce, chiarisce ed alimenta il movimento della vita (PD2, 234). Con il termine azione quindi egli designa qualcosa al contempo di più ampio e di più pregnante di quanto comunemente si intenda: è "la realtà immanente" (la réalité immanente), la realtà non in quanto è in sé, ma in quanto offerta a me, per-me. Alla pagina successiva annoterà che "il s’agit de la réalité contenue en nous (ns. sottol.), de l’aspiration positive qui stimule le développement de la pensée distincte et de la vie morale en chaque homme" (PD2, 235). Si tratta, chiarisce poco dopo, di una realtà “che racchiude l'origine e il termine di cui il nostro pensiero attuale è l'effetto e il mezzo”: non è il pensiero ad avvolgere il reale-azione, ma è questo ad avvolgere il pensiero; in altri termini il pensiero è incluso nel flusso della vita, in qualche modo esaurisce il suo compito nel suo esser funzionale ad essa, come già aveva detto nell’Action, per cui la metafisica "è qualche cosa nel progresso dinamico della volontà" (Ac, 290) e il "pensiero parte dall'azione per arrivare all'azione" (Ac, 295); ancora: "ogni metafisica prepara e postula in qualche modo una prassi che ne costituisce il frutto", 296; "essa propone al pensiero ciò che non è nulla di positivo o di reale, e glielo propone come più reale del reale, perché è quello che deve farsi", 296; "è scienza non tanto di ciò che è, quanto di ciò che fa essere e divenire. L'ideale di oggi può essere il reale di domani", 297.

[25]"à l'abstraite et chimérique adaequatio speculativa rei et intellectus se substitue la recherche méthodique de droit l'adaequatio realis mentis et vitae." (PD2, 235).

[26]PD2, 236.

[27]PD2, 238. Notiamo ancora una volta come, anche nei articoli del 1906 Blondel identifichi il vero, l'essere, l'oggetto adeguato, cui il pensiero tende, con l'infinito.

[28]PD2, 238.

[29]PD2, 239. Sintetizziamo qui, per chi fosse amante di sinossi schematiche, il filo del discorso più propriamente teoretico del Blondel.

1.Si danno due tipi fondamentali di pensiero: concettuale-riflessivo ("inverso") e intuitivo-prospettico ("diretto").

2. Ognuno dei due tipi di pensiero è naturale, organico all'altro, insostituibile.

2.a. Errore dell'intuizionismo bergsoniano: credere alla naturalità del solo pensiero intuitivo.

2.b. Errore antitetico del razionalismo: credere illusoriamente in un'autosufficienza del concetto, che è invece incapace, da solo, di restituire l'integralità del reale.

3.a. Solo il pensiero "riflessivo" coglie gli aspetti essenziali del reale.

3.a.1. Gli aspetti essenziali o concetti non sono atomi logici irreformabili, che rispecchino elementi ontologici nettamente circoscritti.

E ciò perché la realtà stessa non è cristallizzata in una molteplicità di sostanze nettamente stagliate e stabili, ma è qualcosa di fortemente unitario e di fluido.

3.a.2. I concetti perciò sono veri e validi: ma solo nella misura in cui sono rapportati al tutto e non pretendono una fittizia consistenza indipendente.

3.b. Solo il pensiero "diretto" coglie l'essere stesso (l'individuum).

4.a. La verità è sì adaequatio tra pensiero e realtà: ma di tutto il pensiero a tutta la realtà.

4.a.1. La realtà non è solo dimensione di essenzialità, ma anche e prima di tutto esistenza, essere.

4.a.1.1. Ne segue che la verità del puro pensiero riflesso sarebbe monca, difettando dell'esistenza, per cogliere solo aspetti essenziali.

4.a.1.2..Per ovviare a tale inconveniente il razionalismo cristallizza la realtà, negando la sua unitarietà e fluidità: il fisso assorbe il mobile, l'essenza l'esistenza.

4.a.2. La realtà non è solo inafferrabile esistenza, singolarità inoggettivabile, ma è anche intelligibilità.

4.a.2.1. Ne segue che la verità della pura intuizione vitale sarebbe a sua volta monca.

4.a.2.2. Per ovviare a ciò l'intuizionismo assorbe lo stesso pensiero nell'indeterminatezza e nel divenire che caratterizza il concreto.

4.a.3. Per cogliere la realtà nella sua interezza, essere ed essenza, occorre allora una compartecipazione di pensiero diretto, legato all'azione, al movimento della vita, il solo che porti sull'esistenza concreta, intrinsecamente una e fluente, e pensiero riflesso, cui spetta l'insostituibile compito di discernere gli aspetti essenziali.

4.b. Si dà verità allora solo in una integrazione tra pensiero riflesso e pensiero diretto, tra mens e vita (dove “mens” non sta a significare solo concetto e raziocinio, e dove “vita/azione” non indica magma irrazionale e soggettivistico, ma il reale stesso, nel suo darsi alla soggettività concreta e agente).

[30] “la philosophie ne commence vraiment que lorsque, non contente de se réferer à l'idée de l'action comme à son objet propre, elle se subordonne à l'action effective et devient pratiquante" PD2, 239. è perciò un’illusione credere di poter "emplir sa pensée de vérité sans emplir son être de réalité" (PD2, 239): in realtà "la verità, quella vivificante e reale, non è un sistema di cui ci si possa impadronire (emparer) col solo ragionamento (rien qu'en raisonnant); non si entra nella conoscenza del reale che unendo il metodo ascetico allo sforzo speculativo" (PD2, 239). La filosofia, così, non ha che "un ruolo di precursore" (PD2, 239). Solo inserendosi nell'azione riguadagna tutto l'elemento intellettuale.

[31]Pen2, 51.

[32]Tra i due tipi di pensiero vi è "pulsazione incessante, diastole e sistole della natura intera, ritmo razionale e vitale dell'omogeneo e dell'eterogeneo, che si continuano e si scambiano senza mai separarsi né congiungersi" (Pen1, 275/6).

"Il loro incontro, impossibile nel finito, come la convergenza di due parallele, stimola come un optandum (...) il movimento della natura e dello spirito" (Pen1, 276). Si crea così un "buco (trou) reale e incolmabile" che "è il posto preparato (..) dove è atteso l'intervento dello spirito", ultimamente di Dio.

[33]Pen2, 53.

[34]Pen2, 360. Del resto l'analogia può andare anche oltre: la non possedibilità dell'Infinito, unico oggetto che potrebbe saziare il pensiero è ben raffigurata dall'impossibilità per la retina di fissare il sole, per non esserne bruciata (non per nulla i mistici, nota Blondel, parlano di "grande Tenebra accecante", Pen2, 362).

[35] In sintesi, osserva Blondel, le obiezioni contro la sua tesi si concentrano contro l'idea di "une incomplétude essentielle, d'une déficience normale, d'un exode obligatoire" in effetti egli pensa che "dans sa réalité vivante, notre pensée demeure toujours lacuneuse et déficiente" (Pen2, 366). Ma ciò non porta ad una impossibilità di certezze, ad un "buco nero", in cui non si può trovare appoggio alcuno. In realtà Blondel protesta di non aer mai messo in dubbio "l'indestructible solidité et la légitimité rationnelle de nos certitudes humaines" (Pen2, 367).

[36]Blondel nega di aver mai operato un dissovimento del finito: piuttosto il nostro sforzo è stato quello di mostrare "la rigueur rationnelle qui, comme une armature de fer, soutient l'ordre universel", certo, tale armatura di ferro non è fatta per restare chiusa in sè, "mais pour servir d'impérieux ressort, non de cercle emprisonnant."(Pen2, 368). Senza contare che il vuoto che viene scavato rende solo più abbondante ciò che deve esserne ospitato, il dono che ci viene fatto (Pen2, 368).

[37]è un errore pensare che si vada a Dio appoggiandosi sul finito: non si può far "riposare la certezza assoluta dell'Assoluto su ciò che vi è di precario, relativo, deficiente, discorsivo, inadeguato, confuso, sentimentale, nelle cose o nella nostra conoscenza"(Pen2, 367).

[38]Certo, resta fissa "une orientation progressive" (Pen2, 370), ma vi è una "plasticité philosophique" (Pen2, 370); "aucun système statique n'est imperméable au changement" (Pen2, 370). E ciò perché gli oggetti della filosofia non sono chiusi e "materialmente esteriori gli uni agli altri" (Pen2, 370): il problema della filosofia è "un et total"; ergo i suoi risultati non possono essere "stabilisés ne varientur, là où il est justement écrit: opus philosophicum semper perfectibile" (Pen2, 370). La filosofia di oggi deve essere aperta ai perfezionamenti futuri, cosciente del carattere "modeste et plastique de ses prudentes conclusions"(Pen2, 371).

[39] Il vuoto che si apre così è esaurientemente funzionale ad una pienezza che lo possa riempire, e quindi quanto maggiore sarà il vuoto, tanto maggiore sarà la pienezza ospitabile in esso. Perciò "l'idea di una filosofia della deficienza non nulla di sovversivo né di rovinoso", essa significa invece "coscienza di una pienezza (plénitude) da esplorare e da guadagnare", Pen2, 374. "L'idée d'une philosophie de la déficience n'a donc rien de "subversif" ni de "ruineux" (Pen2, 373).

[40]Oltre che di una esperienza ("laicamente" verificabile da chiunque) si tratta di una tesi che si attaglia perfettamente alla visione teologica cristiana. Nel senso che l'indigenza della conoscenza è un caso particolare della complessiva indigenza umana nei confronti del proprio destino e della Trascendenza. La scelta che si prospetta allora è tra una orgogliosa autosufficienza e l'umile riconoscimento della propria relatività.

E in effetti, bisogna concedere al Blondel che la tentazione dell'uomo è di credersi dio (dall'inizio, dal peccato iniziale: eritis sicut dii), di pretendersi forte, assoluto, indipendente, con la conseguenza di piegare a questa falsa convinzione l'idea che potrebbe avere dello stesso essere del mondo, assolutizzandolo indebitamente per sottrargli il carattere di segno, di inesorabile testimonianza di un'Alterità infinita, da cui tutto dipende. L’intenzione di Blondel è di battere in breccia questa tentazione: l'uomo si crede assoluto, assoluto crede il mondo e assoluta la propria conoscenza, e invece va convinto che così non è, che né lui, né l'essere finito, né la sua conoscenza sono qualcosa di autosufficiente, ma gridano una strutturale dipendenza da un Altro: "la courbe de notre existence est à peine ébauchée: nondum apparuit quid erimus. Ne traitons donc pas comme un être achevé l'embryon que nous sommes: initium aliquod creaturae”(PD2, 233).

Queste considerazioni, benché non del tutto convincenti, ci sembra aiutano a cogliere con più esattezza lo "spirito" di Blondel.

[41]è vero che questo fattore er molto più marcato ne Le point de départ, al punto da dominare tutta la architettura del discorso, mentre ne La Pensée viene notevolmente ridimensionato.

[42] Una cosa infatti è la fluttuazione della consapevolezza individuale, altro l'evoluzione storica del pensiero umano.

[43]Si avrebbe infatti che il pensiero umano è essenzialmente storico, nel senso di inabilitato a giungere a verità metastoriche. Nessuna verità così sarebbe mai stabilmente affermata, ma tutto, nel conoscere umano, rimarrebbe in una strutturale condizione di precarietà.

[44] Si tratta di un fenomeno tanto sentito dall'umanità contemporanea, verso cui Blondel si pone in costante atteggiamento di ascolto e di valorizzazione, quanto non sufficientemente riconosciuto dal tomismo, come già abbiamo notato alla fine del precedente capitolo. Ciò è stato più volte sottolineato (cfr. ad esempio il classico del Bouillard, Blondel et le Christianisme, Du Seuil, Paris 1961). Si trattava di cercare una comprensione del fenomeno ateistico e lanciare un ponte verso l'umanità contemporanea che non si potrebbe più riconoscere in un Cristianesimo arroccato in false sicurezze gnoseologiche. Riteniamo comunque che questa componente dialogica non sia primaria, nel senso che a nostro avviso Blondel non mira ad elaborare una tecnica di captatio benevolentiae per catturare il consenso dell'intelligenza laica: il suo pensiero non ci pare un espediente per così dire tattico, mosso da obbiettivi meramente apologetici, bensì un tentativo di comprendere la verità dell'esperienza umana, nella sua integralità e profondità, comune a tutti gli esseri umani.

[45]Ci si potrebbe comunque chiedere se Blondel non abbia indebitamente sovrapposto il piano individuale e quello storico-collettivo: Blondel stesso ha, almeno in parte, anticipato questa obiezione, tematizzando l'impossibilità di parlare di una ragione come qualcosa di slegato dalla persona concreta, come di una entità in sé, in qualche modo impersonale, metaindividuale (come si può parlare -si chiede Blondel- di ragione come di una entità sussistente fuori da ogni soggetto concreto, Pen2, 371?). Né l'idea di un opus philosophicum, come frutto neutrale e cumulativo di apporti scientificamente oggettivi, neutri, gli poteva sembrare accettabile. Dato che, nella sua prospettiva, la presunta coscienza collettiva si risolve esaurientemente nella consapevolezza delle persone, è comprensibile che la mutevolezza della coscienza concreta della persona trascini con sé la stessa "opera comune" della filosofia. A noi pare che una certa distinzione debba invece essere operata, tra piano sapienziale e piano scientifico dell'opus philosophicum, e che la risolvibilità nel personale valga solo per il primo, mentre a livello scientifico si possa dare una oggettività, una impersonalità di apporti, in un'opera di costruzione cumulativa (si veda la prima appendice, sul concetto di scuola).

[46]PD2, 245/6. Ancora: "I dati oggettivi sono dei mezzi per adattare con più precisione ed estendere la nostra azione al suo contesto (milieu) e ottenere, al seguito di una azione meglio adattata, una nuova conoscenza più ricca, più comprensiva, una familiarità più intima con la realtà complessa in cui si muove la nostra vita. Non è direttamente riflettendo sulla riflessione e i suoi oggetti, è agendo secondo le nostre idee riflesse e le nostre conoscenze oggettive che arriviamo a pensare meglio", PD2, 245.

[47]Lo abbiamo già ricordato sopra: "C'est en se mariant à l'action que la pensée engendrera la connaissance vraie", PD2, 245.

[48]PD2, 244.

[49]PD2, 245.

[50]PD2, 246

[51] In effetti come non cambiano i pezzi della scacchiera, in sé presi, all'inizio della partita e al momento dello scacco matto, ma cambia, e di molto, il loro significato sistemico (una torre che resti inoperativa conta, nel dinamismo concreto, meno di un pedone che dia scacco matto), così non è necessario che cambino i concetti perché cambi, anche di molto, la loro collocazione nel complesso globale della conoscenza dell’intero. Certo l'esempio dei pezzi degli scacchi non è sotto ogni aspetto calzante: per completare il discorso, riconoscendo a Blondel una parte di ragione, bisognerebbe forse riferirsi a un'immagine del mondo vivente. In effetti il pensiero non è paragonabile all'inorganico se non ad un certo livello, ma è almeno altrettanto giusto cercare di capirlo paragonandolo all'organico: potremmo allora dire che i concetti, oltre che a dei mattoni, sono un po' assimilabili a delle cellule. Una cellula è qualcosa di reale, ha una sua struttura determinata e una sua stabilità, ma è al contempo intrecciata da una moltitudine di legami con la complessità del tessuto a cui appartiene, e inoltre può conoscere qualche forma di mutamento.

[52] Altre osservazioni critiche, ovviamente, potrebbero essere fatte. Ci limitiamo a qualche cenno, per non esulare dai limiti di questo contributo.

Da un punto di vista puramente filosofico ci pare si possano fare i seguenti rilievi. A livello ontologico, anzitutto, la negazione che la realtà si articoli in una molteplicità di centri sostanziali, dotati di intrinseca determinatezza e almeno temporanea stabilità, ci appare inaccettabile, a partire dal semplice motivo che essa contraddice proprio quel senso comune, quell'esperienza originaria, anteriore "ad ogni pregiudizio speculativo", cui Blondel intende fare riferimento. L'esperienza quotidiana non mi fa mettere in dubbio il carattere sostanziale dell'autobus su cui salgo, della casa in cui abito, del computer che sto usando in questo momento. Non ho dubbi che si tratti di cose, circoscritte in una precisa determinatezza e stabilmente fissate in una permanenza oggettiva (finché almeno qualche causa non le corrompa). Se invece Blondel accentua, in modo che ci sembra francamente esagerato, la mutevolezza e fluidità del reale, è perché egli, quando parla di realtà non intende tanto la realtà oggettiva, ma il nostro soggettivo rapportarci ad essa. Che cosa è infatti tanto fluido? Il reale in sé? Il reale intenzionato dalla conoscenza concettuale speculativa (il Welt, per dirla con Husserl e Scheler)? o non piuttosto il mio rapportarmi pratico al mio umwelt?

All'incrocio tra ontologia e gnoseologia, poi, osserviamo che egualmente inaccettabile, o perlomeno ambiguo, ci appare il discorso di Blondel sulla attingibilità dell'esistenza da parte dell'intelletto astratto: già abbiamo osservato, ad hominem, che non è necessario limitare di tanto il potere del logos per fondare la debolezza concreta dell'intelligenza, né vi è pertanto da temere che una qualche intuizione intellettuale dell'essere, se debitamente intesa (se intesa, cioè, non come coglimento dell'essere nella sua concreta e totalizzante densità, ovvero come coglimento dell'essere come universale concreto, bensì come relativa pensabilità dell'essere, in senso analogico e trascendentale), possa costituire, in quanto tale, motivo di orgogliosa autosufficienza della razionalità umana. Più teoreticamente vorremmo aggiungere che, negato l'accesso del logos concettuale all'essere, sarebbe impossibile salvare il carattere realistico del pensiero, poiché l'essere non è un orpello accidentale, un'aggiunta ornamentale alle cose, e alle essenze delle cose, ma è il cuore stesso del reale, è il reale stesso. Che cosa dunque penserebbe il pensiero, se il reale gli fosse precluso?

Da un punto di vista più teologico infine osserviamo che è vero che il cosmo non è ancora giunto al suo stadio definitivo (paragei to schma tou kosmou toutou) ed anche che le sostanze non sono separate dell'unico Verbo: in Lui tutto è stato fatto e senza di Lui nulla di tutto ciò, che esiste, esiste. Ma tutto è stato creato nel Verbo, nel Verbo eterno, in Colui che "è lo stesso ieri, oggi e sempre". E le persone sono comunque, in qualche modo, delle totalità, pienamente e drammaticamente responsabili del loro destino.

Noi crediamo che Blondel, non solo sincero credente, ma cristiano di grande statura etica e spirituale (cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio del 19/2/1993 al Colloquio internazionale di Aix: “la (sua) opera fornisce ai lettori (…) anche un alimento spirituale (…) capace di sostenere la loro vita di cristiani”), abbia voluto restare in tutto e per tutto fedele al dogma cattolico. é chiaro d'altronde che se Blondel negasse a tal punto il concetto di sostanza da mettere in dubbio la responsabilità drammatica della persona, distinta dal tutto creato e interpellata personalmente da Dio, negherebbe qualcosa di essenziale alla fede. Ma così, ovviamente, non crediamo sia. Resta che il tipo di cammino da lui proposto per fondare un approccio concreto al pensare effettivo degli esseri umani non ci pare interamente condivisibile, per i motivi esposti.

Recensione di uno studioso francese

Deuxieme partie d'un article consacré à la conception de la verité chez Maurice Blondel. Blondel conteste en effet l'idée d'une realité constituée d'elements ontologiques stables, transparents à la pensée. La realité est en fait une synthèse de relations multiples, les concepts ne peuvent etre que fluides et provisoires, et la verité resulte d'une action autant que d'une contemplation : elle est l'objet d'un effort, d'une ascèse. L'A. quant à lui, s'il admet le diagnostic pose par Blondel d'une certaine faiblesse de l'intelligence inapte a saisir d'emblée la realite, defend la position thomiste en reaffirmant une certaine stabilité dans la structuration de l'intellect.